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martedì 17 marzo 2009

Il Pão de Açucar può oscillare

Da un estremo all’altro del Brasile, oggi si sente parlare della necessità di «riforme delle strutture socio-economiche».
L’ insistenza a tal proposito sta assumendo toni che hanno l’aspetto di una vera manovra di guerra psicologica rivoluzionaria.


Infatti, esaminata accuratamente la formula - martellata con l’insistenza di uno slogan -, essa lascia vedere che ha un’andata e non ha un ritorno.

Infatti, la parola «riforma» vi è impiegata con ampiezza indefinita.

Non specifica se il suo indirizzo è verso la sinistra, oppure verso la destra.

Ma, in realtà, quasi tutti quelli che se ne servono lasciano vedere che, attraverso di essa, mirano unicamente a trasformazioni ugualitarie.

Alcune più. Altre meno. Ma tutte, infine, ugualitarie.

Il clamore per tali riforme sta costituendo così un vero fronte comune di opinione pubblica, che raccoglie, per la realizzazione di un solo sforzo, tutti coloro che desiderano un mondo nuovo, meno lontano dal mondo comunista di quello attuale.

Questa diminuzione di distanza alcuni la desiderano rapida e radicale, altri la desiderano più lenta e discreta. Altri, infine, quasi infinitesimale. Ma, in tutti i casi, è una diminuzione di distanza.

È come se si formasse, nella città di Rio de Janeiro, una unione di sforzi fisici magnificamente collegati per spostare il Pão de Açucar (1).

Alcuni fra quelli che portano il loro contributo a questo sforzo globale vorrebbero spostarlo soltanto di qualche millimetro. Altri, più drastici, di qualche centimetro. E, da lì in avanti, vi è persino una minoranza che vorrebbe gettarlo in fondo al mare.

Per quest’ultima, tutti gli adepti dello spostamento dell’attuale equilibrio del gigantesco monolito sarebbero indiscriminatamente alleati. Infatti, tutti concorrerebbero all’essenziale, che consisterebbe nel piegare, non importa verso quale lato, la colossale roccia.

Una volta che si fosse messo a vacillare, sarebbe meno difficile sfruttare un momento opportuno per gettarlo in mare. L’attuale ordine di cose è paragonabile al Pão de Açucar.

Per quanti lo vogliono gettare nel pelago comunista, l’importante è farlo vacillare.

E a questo scopo, può concorrere mirabilmente il vociare a favore delle riforme di struttura.
Tanto più quanto, come ho detto, questo vociare enfatizza una formula che va soltanto verso la sinistra, cioè verso l’ugualitarismo, alla cui estremità sta il comunismo.

Ai nostri giorni, nei quali la gerarchia socio-economica viene scossa, corrosa e contestata persino da molti di coloro che occupano in essa posizioni elevate, sarebbe il caso di includere nell’elenco delle riforme almeno alcune misure che rafforzassero questa gerarchia.

Ma chi la proponesse in una riunione di riformisti, avrebbe contro di sè il fronte comune di tutti i presenti. Proprio come chi, in una via molto trafficata, fosse entrato in automobile contro mano.

Queste osservazioni suggeriscono cautela rispetto alla attuale ondata riformistica.

Cautela che potrebbe esprimersi in una presa di posizione molto semplice, cioè in una richiesta a ogni riformista perché definisca chiaramente quali sono le riforme che desidera.

Il disaccordo reciproco tra tutti i riformisti diverrebbe allora evidente.

Sarebbe equivalente a spezzare l’onda e a scomporla in mille goccioline...

Proponendo una tale presa di posizione, devo a mia volta precisare la mia.

Non voglio, infatti, essere male interpretato. Desidero anzitutto affermare che non sono ostile a ogni e qualsiasi riforma. Voglio, sì, che la riforma non sia intesa come mezzo per fare una giustizia unilaterale in favore dei poveri contro i ricchi, oppure dei ricchi contro i poveri.

Infatti, sia detto di passaggio, anche i ricchi hanno diritti, compreso... quello di essere ricchi.
Una giustizia unilaterale è assurda quanto una bilancia alla quale si sia strappato un piatto.

D’altro canto, dal fatto che ogni regime ugualitario è intrinsecamente ingiusto non concludo che ogni disuguaglianza sia necessariamente giusta. Penso anche che la struttura socio-economica capitalistica tenda a costituire disuguaglianze così enormi da fare il gioco dell’ugualitarismo.

Se tutto il patrimonio privato di un paese grande come il Brasile finisse per appartenere a un nucleo di mille o duemila plutocrati, si produrrebbe di conseguenza uno squilibrio a causa del quale o essi dominerebbero lo Stato, oppure questo dovrebbe dominarli.

La corda si spezzerebbe naturalmente dal lato più debole.

La moltitudine, disinteressata al mantenimento del principio della proprietà individuale, rimarrebbe indolente oppure si manifesterebbe forse persino entusiasta, nel caso che lo Stato attaccasse questo microcosmo di supernababbi.

E come sarebbe facile allo Stato farlo, armato dei mille mezzi che oggi gli offrono le tecniche di pressione propagandistica, finanziarie, fiscali e poliziesche!

L’auge della disuguaglianza sarebbe così l’ultimo passo verso la uguaglianza completa.

E non vi è niente di più utile per la conservazione delle disuguaglianze legittime del mantenerle integre e vigorose, ma proporzionate all’ordine naturale delle cose.

Fatto salvo tutto questo, è tuttavia il caso di esigere dai riformisti che attualmente seguono il new-look socioeconomico, che siano espliciti e precisi.

Fra essi, quanti non vogliono servire da «utili idioti» o da «compagni di strada» del comunismo, si ritirino dall’onda. Quanti vogliono essere una cosa oppure l’altra, lo dicano apertamente.

In questo caso, non tarderanno a sentire quanto, dall’alto al basso della scala sociale, vi sarà chi li respinga come collaboratori del massimo nemico della civiltà cristiana.

(Plinio Corrêa de Oliveira, Articolo comparso su Ultima Hora del 7-8-1981. Tratto da Cristianità 9 – N. 80 dicembre 1981)


Note

(1) Gigantesco massiccio che domina la baia di Guanabara, una profonda insenatura dell’Oceano Atlantico, di cui Rio de Janeiro occupa la riva sud occidentale (N.d.T.).

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