Un contemporaneo giudica, che il Bassville si comporta come se tutta Roma fosse già divenuta una seconda Parigi. Sebbene non avesse alcun carattere ufficiale, egli corrispondeva, come se fosse un inviato, col ministero degli esteri di Parigi, cui il 9 gennaio 1793 propose di domare il <<martire beatificato>>, come amava chiamare Pio VI, con un severo castigo. Ancora più arditamente del Bassville, il quale vedeva con dolore che Roma non era punto terreno adatto per i suoi piani, procedeva il Mackau. Il 10 gennaio 1793 egli inviò un ufficiale di marina, di nome La Flotte, a Roma con lettere al Segretario di stato ed al console Digne. Il Digne ebbe istruzione d’innalzare immediatamente l’arma della Repubblica. Egli però ribattè in maniera molto calzante, che il Mackau fuori della sua sfera di attività napoletana non aveva diritto di emanare ordini di sorta, che inoltre l’incarico datogli era in contrasto coll’istruzione del ministro della marina, secondo la quale ci si doveva limitare ad una protesta, se veniva rifiutato l’innalzamento dell’arma repubblicana; il Mackau altresì, osservava il console, non sospettava a qual pericolo egli esporrebbe tutti i suoi compatrioti, ove si provocasse ancor di più la pubblica opinione di una città, in cui il popolo era attaccato alle sue tradizioni religiose e già senza altro odiava i francesi. In tali circostanze il Digne credeva che si dovesse prima attendere il ritorno del corriere straordinario e la sollecitata risposta del Comitato esecutivo di Parigi. L’appassionato La Flotte non ne volle sapere. Egli gettò al vento ogni ammonizione e sostenne, che si doveva tenere alto l’onore nazionale, intimidire il Segretario di stato, da cui furono ricevuti tanto più facilmente in quanto assicurarono di volere ringraziare per la liberazione dei due artisti.
Il ringraziamento consistette nel dare 24 ore di tempo a deliberare al governo pontificio per il permesso all’innalzamento dello stemma della Repubblica; se il Papa non consentiva, la Repubblica saprebbe vendicarsi con le armi. Lo Zelada replicò richiamandosi alla dichiarazione negativa dell’8 gennaio, ma promise di sottoporre ancora una volta l’affare al Papa e di dar risposta il 14 gennaio. Le minacce francesi furono subito conosciute a Roma. Si seppe anche che il La Flotte e il Bassville erano in relazioni strettissime con i pensionari dell’Accademia artistica francese. Nel loro zelo rivoluzionario questi relegarono la statua di Luigi XIV, fondatore dell’Accademia, nella cantina e collocarono nella sala da pranzo una statua di Bruto. Essi lavorarono con entusiasmo allo stemma della repubblica, che doveva esser collocato nonostante il divieto pontificio. Tutto ciò fece crescere necessariamente lo sdegno dei romani fino al bollore. Data l’eccitazione dominante, il Papa aveva ordinato già a Natale precauzioni militari, che risultarono efficaci. In seguito al contegno provocante dell’Accademia artistica ed alle minacce del La Flotte e del Bassville, egli ordinò misure particolari per la domenica 13 gennaio dirette al mantenimento della quiete, le quali però si dimostrarono insufficienti, perché il Bassville si fece indurre dal La Flotte a una nuova forte provocazione.
Nel pomeriggio di detto giorno egli compì una specie di passeggiata trionfale per il Corso, in quel momento riboccante di gente, in una carrozza aperta, in cui si trovavano la moglie, il bambino, il La Flotte, un amico francese di nome e due servitori. Coloro che erano nella carrozza portavano tutti sul cappello grandi coccarde tricolori; uno sventolava anche una bandiera tricolore di seta. Il popolo ne fu eccitato. Un monello di strada gettò per primo una pietra nella carrozza, e altri seguirono ben presto, mentre da tutte le parti risonava il grido. <<Abbasso le coccarde>>. Si venne a un violento diverbio, perché il La Flotte e il Bassville si ricusarono di deporre le insegne repubblicane, e risposero agli insulti con la stessa moneta. Un colpo d’arma da fuoco, che però non ferì nessuno, accrebbe il tumulto. Coloro che erano nella carrozza, minacciati con pietre e bastoni, compresero finalmente presso Piazza Colonna la loro pericolosa situazione. Venne comandato al cocchiere di prendere presso Palazzo Chigi per il Vicolo dello Sdrucciolo e recarsi al prossimo Palazzo Palombara, abitato dal banchiere francese Moutte; ma la folla urlante tenne dietro, penetrò nel palazzo, ove si svolse una zuffa, in cui il Bassville fu ferito gravemente da un colpo di punta al basso ventre.
Lo si sarebbe finito, se la polizia accorsa non l’avesse portato nel suo corpo di guardia in Via Frattina. Nel trasporto colà egli fu ancora ulteriormente ferito da colpi di pietra. Nel corpo di guardia gli prestò le sue cure il medico dott. Bussan, più tardi anche l’archiatra di Pio VI, Flajani, che il papa aveva inviato subito; ma ogni aiuto medico riuscì vano, due giorni dopo il Bassville soccombette alla sua ferita. Egli aveva richiesto gli ultimi sacramenti, che dopo ritrattazione del giuramento alla Costituzione civile gli furono somministrati dal parroco di S. Lorenzo in Lucina. Al dottor Flajani egli disse di essere la vittima del La Flotte, senza la cui comparsa non sarebbe accaduto nulla. Il Papa provvide per una sepoltura conveniente in S. Lorenzo in Lucina. Il La Flotte aveva abbandonato il suo amico e provveduto alla propria sicurezza personale, saltando dalla finestra di una casa vicina. Egli e la moglie e il figlio di Bassville dovettero la propria salvezza al Papa, che fece apprestar loro davanti alla porta una carrozza con 60 uomini di scorta, sotto la cui protezione scamparono felicemente a Napoli.
La folla furente aveva assalito non solo il Palazzo Palombara, ma anche la posta francese, l’Accademia artistica, ove dette fuoco alla porta d’ingresso, e le case abitate da amici di francesi, come il banchiere Torlonia. Quivi non solo vennero fracassate a sassate tutte le finestre, ma si tentò anche di appiccare il fuoco, il quale atto di vendita, però, fu impedito dal senatore Rezzonico accorso personalmente e dal generale Caprara. Tutta la città fu in movimento durante la notte; in tutte le strade risonava il grido: <<Viva la religione cattolica, viva il Papa>>. Venivano fermate tutte le carrozze e costretti quelli che c’eran dentro ad unirsi al grido. L’inviato veneziano Capello, alla fine della sua relazione del 14 gennaio 1793, diceva che il tentativo di far scoppiare le rivoluzione a Roma era fallito senza trovare punti aderenti. Il giorno dopo il furore del popolo, specialmente dei trasteverini, si rivolse contro gli ebrei. Già da mesi si diceva in Roma, che questi odiati stranieri distribuivano danaro ai francesi, confezionavano per essi coccarde tricolori e stavano in lega con loro per attuare la rivoluzione. Incomparabilmente più importante e più pericolosa per gli ebrei era l’esasperazione degli industriali, che si vedevano gravemente danneggiati nei loro interessi per il fatto, che gli ebrei si sottraevano alle vigenti leggi commerciali. Sorse così il piano di far vendetta terribile di loro. Per fortuna truppe pontificie difesero il Ghetto, ove la plebaglia, fra cui si trovavano elementi desiderosi di bottino, tentò di appiccare il fuoco.
Anche al di fuori di questo si riuscì a prevenire disordini ulteriori. La maggioranza dei francesi era senz’altro fuggita da Roma, i rimasti vennero protetti su comando del Papa; i parroci ebbero incarico di calmare il popolo. Un editto del 16 gennaio condannò gli eccessi avvenuti, un altro del 17 sottopose nuovamente gli ebrei alle limitazioni anteriori della Bolla di Paolo IV. Il 15 gennaio la calma in Roma era ristabilita completamente. La città riacquistò man mano il suo aspetto precedente. Fu tuttavia necessario seguitare a vigilare, perché effervescenza vi era tuttora. Il Papa prese per il futuro altre misure di precauzione, fra cui anche di quelle per la sua persona propria. Egli provvide contro una deformazione degli avvenimenti deplorevoli mediante una relazione particolareggiata e calma in data 16 gennaio, la quale fu trasmessa a tutti gli inviati. L’aspro modo di procedere del Mackau venne disapprovato non solo dal Digne, ma anche dal Bernard e perfino da alcuni pensionari dell’Accdemia artistica francese. Esso non rispose neppure agli intendimenti del Comitato esecutivo di Parigi, nel quale Madame Roland non dava più il tono.
Il Lebrun, senza conoscere ancora la rivolta del 13 gennaio, aveva diretto il 23 una lettera al Bassville, che disapprovava completamente la condotta di lui nell’affare dello stemma. La consuetudine e l’accortezza avrebbero imposto di mettersi prima d’accordo con il Collegio cardinalizio, per non compromettere la dignità della nazione e la sicurezza dei francesi in Roma. Si diceva inoltre, che al Papa, il quale non aveva riconosciuto formalmente la repubblica, doveva essere apparsa come una misura straordinaria, che si cercasse bruscamente di sostituire l’arma regia con quella repubblicana. Seguiva l’ordine a Bassville di tornare a Napoli; per avviare i rapporti diplomatici sarebbe stata destinata un’altra personalità. Questo compito era stato affidato dal comitato esecutivo fin dal 19 gennaio al Cacault, già segretario del barone Talleyrand a Napoli. Il 30 gennaio egli ricevette l’ordine espresso di dichiarare al cardinal Segretario di stato, che il Comitato esecutivo disapprovava tutti i passi fatti dal Bassville e dal Digne di proprio arbitrio come abusivi e sconvenienti e pregava di considerarli come non avvenuti insieme con quanto era seguito da essi. Prima ancora che il Cacault potesse assumere in Roma il suo nuovo posto, a Parigi intervenne improvvisamente un cambiamento completo. Bassville vivo era stato completamente sconfessato, ora che era morto, fu dichiarato senza esitazione martire della Repubblica. Si disse, che era necessario vendicarsi del complotto dei preti del re distruggendo Roma; era tempo, infatti, che questa città scomparisse dal mondo che aveva oppresso così a lungo. Il 2 febbraio 1793 la Convenzione nazionale decretò in base a relazioni completamente partigiane: poiché il delitto atroce commesso contro la persona del Bassville, la distruzione e l’incendio dell’Accademia artistica e del consolato francese rappresentavano un oltraggio della sovranità nazionale ed una palese violazione del diritto delle genti, il Comitato esecutivo prendesse le misure necessarie per prenderne una strepitosa vendetta. Il bambino del Bassville doveva essere educato a spese della Repubblica e la vedova ricevere una pensione. Quattro giorni più tardi quello stesso , che poco prima era stato incaricato di disapprovare il Bassville, ebbe dal Comitato di sicurezza il comando di rivolgere al cardinale Segretario di stato le richieste seguenti: 1° invio di un nunzio a Parigi per far le scuse dell’attentato commesso; 2° ritiro del divieto di collocare l’arma della repubblica sul consolato francese; 3° espulsione di tutti gli emigrati, specialmente dell’abate Maury, dallo Stato ecclesiastico; 4° punizione dei promotori dei disordini del 12 e 13 gennaio; 5° indennità ai francesi e romani colpiti da questi disordini; 6° ristabilimento dell’Accademia artistica nello stato anteriore.
Pio VI rifiutò, com’era naturale, di comprar la pace dalla Repubblica a queste condizioni umilianti. Al Cacault venne senza altro vietato di comparire a Roma; egli dovette rimanere a Firenze, ove cercò di rendersi utile prendendosi cura dei francesi fuggiti o rimasti ancora a Roma. La Repubblica, però, non era in condizione d’intraprender nulla contro lo Stato ecclesiastico. Essa aveva abbastanza da fare per difendersi non solo dai suoi nemici interni, ma anche da quelli esterni. Essa pertanto dovè lasciar cadere in dimenticanza l’affare di Bassville.
La quiete subentrata in Roma dalla metà di gennaio 1793 non era destinata ad essere di lunga durata. Se la notizia dell’esecuzione di Luigi XVI il 21 gennaio commosse tutto il mondo civile, così in Inghilterra come in tutti gli Stati del continente, particolarmente profonda fu l’impressione in Italia e soprattutto a Roma, ove il popolo era assolutamente contrario alla Rivoluzione francese. Per verità durante il processo contro il re ci si era abituati all’idea di un esito sanguinoso; pure il fatto terribile, una volta divenuto realtà, produsse l’effetto violento di una scelleratezza del tutto inaspettata ed incredibile. Tutta la popolazione romana fu presa da dolore e da orrore. Il Pontefice versò lacrime e passò una notte insonne.
L’esasperazione dei romani si rivolse ora con furore rinnovato contro i francesi ancora dimoranti in città e contro i loro amici, specialmente gli ebrei. Questi furono assaliti per vie di fatto. L’11 e 12 febbraio Roma fu nuovamente il teatro di violenze. I romani domandarono l’espulsione di tutti i francesi. Il governo fece quanto potè per proteggere i minacciati, che non preferirono fuggire, o per allontanarli da Roma. Esso fece tener prediche nelle chiese per calmare gli animi e procedette anche ad arresti di coloro, che eccitavano la popolazione. Questo spaventò. Un editto del 17 febbraio diretto contro gli eccessi contribuì molto al ristabilimento della calma.
(Ludwig VON PASTOR, Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo, Desclée, Roma 1955, vol. 16-3, 1775-1799)
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