Suor Caritas Pirckheimer
In Germania, quando Lutero seminò le sue dottrine eretiche, ci fu una monaca a Norimberga che ebbe il coraggio e la forza di non seguirlo, si chiamava Suor Caritas Pirckheimer (1467-1532), una figura da riscoprire in questi nostri tempi.
Il prestigio e la preparazione dell’Abbadessa Caritas fecero in modo che il monastero delle Clarisse di Norimberga si facesse interprete di un’accesa diatriba all’interno della città.
Le perseguitate claustrali hanno lasciato traccia di sé in una puntuale cronaca, dal titolo Fatti memorabili, un documento di inestimabile valore storico e spirituale, che riporta gli eventi dal 1524 al 1528, volti alla strenua difesa della fede e della Chiesa cattolica. Inizia così la relazione della Madre Abbadessa: «La dottrina di Lutero è stata la causa di molte rovine; crudeli discordie hanno straziato la cristianità, le cerimonie delle chiese sono state mutilate e in molti luoghi i preti hanno di colpo abbandonato il loro stato, perché si predicava la sedicente libertà cristiana, si andava ripetendo che le leggi della Chiesa e i voti non obbligavano più nessuno. La conseguenza di tali discorsi fu che un buon numero di monaci e di monache usarono di questa libertà per uscire dal chiostro e deporre i loro abiti; molte si maritarono persino e, in una parola, non agirono che seguendo la propria fantasia».
Barbara Pirckheimer, la maggiore di dodici figli, nacque da una famiglia importante ed erudita di Norimberga. Ricevette un’educazione umanistica, eccellendo nella lingua latina e a 16 anni entrò fra le Clarisse, prendendo il nome di Caritas.
Il monastero, noto per la sua vasta biblioteca e il suo scriptorium, conteneva circa 60 monache, tutte provenienti dalle famiglie più prestigiose di Norimberga. Molti studiosi vennero a conoscenza di lei, a causa di suo fratello Willibald, che aveva studiato in Italia e che divenne uno dei più importanti umanisti tedeschi.
Le idee di Martin Lutero furono discusse a Norimberga già nel 1517 e Willibald fu uno dei suoi primi ammiratori. Suor Caritas si oppose, fin da subito. Ma quando nel 1524 la città di Norimberga iniziò ad agire contro le Clarisse, Willibald prese le loro difese.
Ogni giorno personalità potenti e temibili presero ad andare a far visita alle Suore “ribelli” alle autorità civili che avevano assunto il potere religioso: cercavano di insegnare loro la dottrina di Lutero, nel vano tentativo di convincerle a desistere dal loro stato, in quanto la vita religiosa non era vista dal Luteranesimo come consacrazione per amore a Dio e desiderio di vivere alla Sua amorevole presenza, bensì come forma di baratto: la salvezza eterna in cambio di una vita di privazioni.
Così molte famiglie, influenzate da questi discorsi, cercavano di portare via figlie, sorelle e nipoti monache. Per tutta la Quaresima del 1525 si ebbero in città continui dibattiti fra coloro che parteggiavano per la nuova dottrina e preti o religiosi, e ogni volta i seguaci di Lutero guadagnavano più consenso. I membri del Consiglio annunciarono l’intenzione di sottrarre le suore dal servizio spirituale di sacerdoti papisti, sostituendoli con pastori di nuova generazione tedesca: «Da questo giorno noi siamo state private della confessione, della comunione e di tutti i sacramenti persino in pericolo di morte».
L’Abbadessa e le sue figlie furono costrette ad accettare i predicatori del Consiglio cittadino, ma rifiutarono i confessori, preferendo così privarsi dei Sacramenti piuttosto che cedere agli errori. Di fronte al Consiglio stesso Madre Caritas dichiarò: «Il Consiglio ricorderà certamente che noi gli abbiamo sempre obbedito nelle cose temporali, ma in ciò che tocca le nostre anime noi non obbediremo che alla nostra coscienza».
Si provò a fare un vero e proprio lavaggio del cervello per cercare di attirare le Clarisse nelle maglie del Luteranesimo. Ma nulla poté vincere la fede di quel monastero. Spesso i predicatori usavano toni assai aggressivi, tuttavia le monache non crollarono: ascoltarono 111 prediche, ma nessuna di esse ebbe effetto e non furono loro a stancarsi, bensì il Consiglio, che non mandò più delegati. Si giunse così alle privazioni economiche e alle minacce.
Era la Settimana Santa del 1525: «Quando il Curatore Nutzel vide che non sarebbe mai arrivato a vincere la mia resistenza cambiò soggetto e mi parlò di un grande sollevamento di contadini che erano entrati in rivolta, in numero molto considerevole, per saccheggiare i conventi e scacciare o mettere a morte tutti i Religiosi e le Religiose. E che non doveva rimanere presente una sola Clarissa nel convento di quella città; e che avremo fatto bene a riflettere a non dare occasione, a nostra volta, ad una grande carneficina».
Il giorno dopo la Pasqua ci fu l’interdizione di ogni culto cattolico per tutta la città. In seguito Agostiniani («che erano la sorgente di tutte queste disgrazie!»), Carmelitani, Certosini… abbandonarono i loro abiti, non recitarono più il Mattutino e celebrarono gli Uffici a loro soggettivo piacimento.
Molti presero moglie. Le pressioni sulle Clarisse erano snervanti: quotidianamente le intimidivano di cacciarle, di demolire il chiostro, di mettere il convento a ferro e fuoco. «Siamo diventate per tutti, grandi e piccoli, oggetto di disprezzo […]. Siamo tenute in maggiore disprezzo delle donne pubbliche e ci dicono che veramente noi valiamo meno di loro. […] Non volevano che qualcuno chiamasse più ‘chiostri’ i nostri conventi, ma ‘ospizi’ e che le suore si chiamassero ‘canonichesse’, le abbadesse e le priore, si dovevano chiamare ‘direttrici’: non doveva più esistere alcuna distinzione tra i chierici e i laici».
Le dispute, fedelmente riportate nel documento storico, che l’Abbadessa e i legati rivoluzionari sostengono, dimostrano la teologica e dottrinale preparazione dell’eroica e illuminata Caritas, la quale riunisce le sorelle nel Capitolo di quel 1525 e domanda loro il parere sulla condotta da seguire: «Le ho trovate tutte con lo stesso sentimento e mi hanno risposto che non si sarebbero lasciate convertire alle dottrine nuove attraverso nessuna sofferenza; che non si sarebbero separate dalla santa Chiesa e che non sarebbero mai riusciti a trascinarle fuori dalla vita monastica. Rifiutarono la direzione dei preti apostati preferendo restare lungo tempo senza confessione e private della santa Comunione. […] Scrissi la supplica […] che la comunità approvò all’unanimità dopo averne ascoltata la lettura. Ciascuna chiese di firmare; tutte volevano la loro parte di responsabilità delle disgrazie di cui essa avrebbe potuto essere per noi la fonte».
Alle Clarisse andò a far visita Filippo Melantone in persona, amico di Lutero, nonché uno dei maggiori protagonisti della rivoluzione protestante, ma rimase ammirato di fronte all’Abbadessa, e si congedò amichevolmente [...]. Così, nonostante molte privazioni e sofferenze, il monastero rimase in vita.
Nel 1530 Willibald, il fedele sostenitore, muore, mentre Caritas scompare due anni dopo. Sua sorella Clara le succede, poi è la volta della nipote Caterina. Le Clarisse, alle quali viene categoricamente vietato di accogliere novizie, rimangono solidamente ancorate alla Chiesa di Roma, fino all’ultima monaca, suor Felicita, che si spense nel 1591 all’età di 91 anni: conformemente ai patti presi, il Consiglio della città dovette attendere la sua morte per prender possesso del convento. Intanto, tutti i monasteri di ogni ordine, presente sotto la giurisdizione luterana, sparirono.
La storiografia non potrà mai colmare il grande vuoto di informazioni circa lo svolgimento della chiusura dei chiostri, poiché il più degli archivi conventuali sono stati deliberatamente distrutti. Tuttavia le preziose memorie delle Clarisse di Norimberga fanno ben intendere i sistemi coercitivi e violenti dei luterani, e la risposta delle spose di Cristo, qui impressa per sempre, è quella dei santi: «La Chiesa è stata governata fino ad ora dallo Spirito Santo, secondo le promesse del Cristo. Niente ci separerà da essa. Noi soffriremo ciò che piacerà a Dio di mandarci, è meglio soffrire a causa del male che consentire a fare del male».
Cristina Siccardi
Corrispondenza Romana, Marzo 2018
(I grassetti sono nostri)
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