“In ogni trattato diplomatico c’è sempre un cavaliere e un cavallo”, diceva il Cancelliere di Ferro Otto von Bismarck. E l’Unione Europea non fa eccezione.
Non ci riferiamo tanto al ruolo dominante che sta assumendo la Germania nel concerto delle nazioni europee, quanto piuttosto ai centri di potere, difficili da individuare e per niente responsabili di fronte agli elettori, che ormai fanno il buono e il cattivo tempo. A cominciare dalla Banca Centrale Europea, organismo privato — quindi indipendente dagli Stati membri — dalla quale dipende in buona parte il nostro tenore di vita.
Il crack dell’euro — perché è di questo che si tratta — è un campanello d’allarme. Sintomo di difetti strutturali ben più profondi. Si cerca in ogni modo di salvare la piccola e irrequieta Grecia, solo perché altrimenti sarebbe un “disastro planetario”, secondo un dirigente della BCE. Ma ormai la sua uscita dall’euro sembra solo questione di tempo, con o senza “disastro planetario”.
Per via dei meccanismi di integrazione messi in atto dall’Unione Europea, la crisi greca si ripercuote ipso facto in tutto il comparto. Se la Grecia si raffredda, l’Italia starnuta... Cosa succederà se la Spagna piglia la polmonite?
Privi della loro sovranità economica e politica, i Paesi non sono più in grado di schivare l’onda d’urto. La moneta unica ha tolto loro ogni margine di manovra.
Molti europei cominciano a sentirsi come cavalli di un cavaliere del quale non sanno nemmeno il nome. Quando, in una conferenza alla Luiss, il presidente Monti dichiara “quando si manifestano le crisi, i cittadini accettano cessioni di sovranità”, è lecito chiedersi cui prodest questa crisi, e a quali istanze stiamo cedendo la nostra sovranità.
Da noi, all’insegna di un governo “tecnico”, la risposta alla crisi si è finora incentrata su un mastodontico aumento delle tasse. L’esatto opposto di quanto fecero, a suo tempo, Ronald Reagan e Margaret Thatcher per tirare fuori i loro Paesi dalla stagnazione degli anni '70. In concreto l’IMU, gravando direttamente sulla proprietà privata, stabilisce su di essa una sorta di ipoteca statale che riduce ancor di più la libertà dei cittadini.
I periodi di crisi sono, quasi per definizione, anche periodi di profonda riflessione. Tutt’una serie di presupposti, forse accettati senza badarci troppo visto che le cose andavano bene, vengono messi in dubbio. Ovunque si notano i sintomi di questo profondo malessere. Dai successi elettorali dell’estrema destra in Francia, Finlandia, Ungheria ed altri Paesi, al sorprendente trionfo di un comico genovese nelle ultime consultazioni regionali in Italia, l’onda dell’anti-politica si fa sentire chiara e forte.
È triste constatare che sia stata l’economia ad aver fatto scattare questo malessere, e non altrettanto quando v’erano ragioni ben più nobili, come ad esempio la crescente cristianofobia dimostrata dal Parlamento di Bruxelles. Ma prendiamo atto che ormai è esploso.
A vent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht, che disegnò la road map per l’integrazione europea, per la prima volta ci troviamo di fronte alla concreta possibilità di fallimento del progetto utopistico dell’Unione Europea. Non è il momento di tirare il freno, fermarci a ragionare e porci la domanda che pochi vogliono sentire: ma è questa l’Europa che vogliamo?
(“È questa l’Europa che vogliamo?” – Rivista Tradizione, Famiglia, Proprietà, Giugno 2012 - i grassetti sono nostri)
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