Una giovane contadina della Castiglia fissa con sollecitudine e tenerezza il figlio che ha tra le braccia.
In lei si nota una certa rusticità propria dei contadini. Ma una rusticità in cui quasi non si nota una certa asprezza contenuta dal concetto di “rustico”. Anzi, la vita della campagna ha concentrato in questa giovane i suoi migliori effetti. Le sue sembianze e il suo atteggiamento esprimono una vigorosa pienezza di salute del corpo e dell'anima. Ma una pienezza alla quale secoli di tradizione cristiana hanno impresso la loro impronta. In questa contadina, che forse saprà appena leggere, c’è un’intensità di vita spirituale, una logica, una temperanza, un'armoniosa soggezione della materia allo spirito, e allo stesso tempo una freschezza e una delicatezza che solo possono provenire da molta fede e molta purezza. I tratti fisionomici, molto nitidi, sono energici. Le sopracciglia folte, e dai lineamenti molto definiti, servono da cornice a uno sguardo penetrante e preciso. Eppure nel viso c’è una serenità, un candore, che il bianchissimo copricapo sembra accentuare con un tocco speciale di eleganza.
Si tratta di una semplice figlia del popolo. Ma di un grande popolo, fortemente cattolico. In esso vi sono tesori di ogni tipo, etnici, storici, morali, sociali, religiosi, che fanno di questa umile e fiera figlia della Castiglia un modello degno di risvegliare il talento di un grande pittore.
Tutti questi tesori si orientano verso la maternità. Spicca la delicatissima tenerezza con la quale contempla suo figlio, la consapevolezza del suo ruolo protettivo, la dedizione con cui lei è, per così dire, mobilitata in tutte le sue attitudini, in tutta la sua capacità affettiva (sia detto di passaggio, un affetto profondo, serio, senza mollezza) a pro del figlio che Dio le ha dato.
Beata creatura a favore della quale la Provvidenza ha disposto le meraviglie della natura e della grazia, nello zelo di una madre pura e piena di fede.
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“Siamo figli di Lenin, non vogliamo né padre, né madre…”. Facendo vibrare l’aria con questa miserabile canzone, sfilano per le vie di una città comunista questi piccoli schiavi dell’Anti-Cristo, che portano sul petto le insegne del loro sinistro padrone: la stella a cinque punte, con la falce e il martello.
Sono ragazzini che sembrano formati, non per una vita civile comune, ma per l’aggressione, l’insulto e la brutalità. Si nota che in essi la capacità di odiare fu risvegliata, eccitata e fissata a un livello di tensione abituale molto elevato, in modo da formare in loro una seconda natura. Gli occhi fissano l’obiettivo del fotografo, o qualsiasi altro punto nello spazio, impregnati di diffidenza, carichi di odio. L’andatura lascia trasparire un'intenzione malefica, che sembra dare a quei passi una cadenza feroce. I passanti, che contemplano il corteo, sembrano animati da analoghi sentimenti. Si direbbe che sono i figli dell’odio, cantando nella città dell’odio l’inno dell’odio! È molto naturale che, per riuscire a formare così i figli dell’ira, gli si abbia rubato l’amore paterno e materno, gli si abbia inspirato un odio mostruoso contro la vita di famiglia.
Devozione ed empietà, virtù ed immoralità, delicatezza temperante e forte, brutalità sfrenata e luciferina, insomma civiltà cattolica e comunismo, ecco la tragica alternativa di fronte alla quale si imbatte l’uomo del secolo XX.
Plinio Corrêa de Oliveira – “Catolicismo”, Dicembre 1955
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Quale concetto di famiglia certi capi di stato latinoamericani
vogliono imporre al secolo XXI?
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