giovedì 2 novembre 2017

La morte è stata inghiottita nella vittoria

2 Novembre
 Commemorazione dei fedeli defunti

«Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria».

Con queste magnifiche parole, San Paolo (1 Cor. 15, 51-54) annuncia ai pagani la buona novella della resurrezione della carne.
La nostra foto rappresenta delle pie donne che vegliano un defunto in un piccolo villaggio della Spagna. Sono costernate dal dolore della separazione. Ma nella loro sofferenza non vi è disperazione, né acredine, né rivolta. Domina l'ambiente un'atmosfera di serena conformità, di soave rassegnazione, di raccolta preghiera. È perché si tratta di un vero focolare cristiano, e, in qualsiasi contrada del mondo, ovunque ci sia una famiglia cristiana, ricca o povera, colpita dalla morte, l'atmosfera sarà sempre questa. I veri figli della Chiesa, infatti, credono nella risurrezione della carne e sanno che mediante la Redenzione del genere umano "la morte è stata inghiottita nella vittoria".
Lo spirito del mondo non comprende queste cose ed assume nei confronti della morte atteggiamenti completamente diversi da quelli del cattolico genuino.Alla radice di tutto c'è il terrore, un terrore con panico, che alla vista della sepoltura, sconvolge tutto l'essere, perturba ogni lucidità, abbatte tutto il coraggio. Le miserie grandi e piccole causate da questo terrore sono pressoché innumerevoli: il timore di visitare il medico ed ascoltare una diagnosi minacciosa; la paura di fare testamento; il raccapriccio di assistere all'agonia di qualcuno; il profondo disagio di dover partecipare ai funerali, di mettersi in lutto, sono fenomeni nervosi confessati o inconfessati, e talmente universali che sarebbe superfluo insistere su di essi.

Un altro aspetto del terrore della morte sta nell'esagerata cura della salute, nella paura di invecchiare, nella tendenza di ognuno a dimenticare la propria età. E così ci si avvicina al momento ineluttabile. Quando infine la mano della morte si posa su qualcuno, conducendolo inequivocabilmente verso il grande ed ultimo viaggio, queste miserie si accentuano ulteriormente. Quante volte l'infermo - contando sulla complicità dei medici e degli amici - cerca di illudersi sino alla fine sulla gravità del proprio stato. Quando ormai non c'è più rimedio se non il riconoscere che sono giunti gli istanti supremi, il malato non ha coraggio di guardare davanti a sé, verso il tramonto che lo sta avviluppando, l'oscurità che si avvicina, e preferisce voltarsi verso il passato: ecco allora gli interminabili commiati, le reminiscenze, gli ultimi doni, ecc. Finché sopraggiunge l'epilogo culminante, trascinando tutto nella sua voragine. Il fatto è compiuto. La morte ha fatto irruzione nel focolare.

Spetta ai vivi prendere un'attitudine dinanzi ad essa. Coloro che avevano per il morto un affetto sincero restano atterriti, si dimenano, si ribellano: sono i pianti tragici, le grida lancinanti, gli abbattimenti profondi e delusi. Altri, invece, fuggono impauriti, cercando di dimenticare il morto, per fuggire da quel che ricorda la morte. Sono gli animi che si perdono intenzionalmente nei dettagli sociali dei funerali e del lutto, che abbreviano al massimo la presenza del defunto in casa, che «semplificano» in tutti i modi le onoranze funebri perché scorrano svelte e senza lasciar traccia. Tra questi due atteggiamenti estremi, come è diversa la posizione delle anime cattoliche!
La Chiesa ci insegna che la morte è un castigo imposto da Dio agli uomini in conseguenza del peccato originale. Il castigo consiste proprio nel procurare afflizione e dolore. E siccome Dio è infinitamente sapiente e potente, e quindi compie con perfezione tutte le sue opere, questo castigo stabilito da Lui dev'essere necessariamente capace di produrre molta afflizione e molto dolore. Ne fu esempio supremo la morte volontaria del nostro Salvatore, sommamente afflittiva, indicibilmente dolorosa. E dato che gli istinti umani retrocedono dinanzi all'afflizione ed al dolore, è naturale che si sentano terrorizzati di fronte alla morte.
È vero che molti santi sono morti inondati da consolazioni soprannaturali, accettando la morte con più piacere di coloro che accettano onori o ricchezze. Si tratta di veri miracoli della grazia, nei quali l'unzione soprannaturale è tanto intensa da sospendere, per così dire, gli affanni della natura. Ma gli uomini in generale non rientrano in questo caso: muoiono con timore e dolore.

Se la morte fa soffrire, è legittimo che partecipino di questo dolore coloro che amano il morto. La Chiesa ha approvato, quindi, i costumi sociali tendenti a circondare la morte con le manifestazioni esterne del dolore. E perciò la sua liturgia per i defunti assume tutti segni della tristezza. Ella, che è la maestra e la fonte stessa dell'immortalità, non disdegna di partecipare alle nostre lacrime, di rivestirsi del nostro lutto. I paramenti del Sacerdote sono neri, come lo è pure il telo sul quale si impartiscono le assoluzioni; e la musica liturgica per i defunti canta con forte espressione tutto il dolore umano di fronte alla morte. Gli stessi testi liturgici echeggiano all'unisono i nostri gemiti. Insomma, come Maestra, la Chiesa giustifica il nostro dolore, come Madre vi si associa. Per questo incita la carità dei fedeli a manifestarsi generosamente a proposito della morte. Vegliare i defunti, partecipare ai funerali, visitare le famiglie in lutto, assistere alle Messe in suffragio dei defunti, sono atti praticati oggi molto spesso con spirito assolutamente mondano e naturalista. Questo spirito dev'essere abolito, ma non lo devono essere questi atti, in sé stessi eccellenti e rigorosamente coerenti con quel che la Chiesa insegna sulla morte.

Così si spiega come, nei secoli di civiltà cristiana, i costumi sociali, lentamente costituiti sotto l'influsso dello spirito cattolico, via via diedero forma ed espressione a tutte le idee. Da qui proviene il lutto che i popoli occidentali portano con il colore nero, ritenendo - non infondatamente - che questo colore serve per esprimere il dolore.

Ma, si direbbe, sarà necessario come che stabilire delle regole per il lutto, in modo che i costumi impongano un certo periodo di tempo, e quindi una determinata forma di lutto, per i vedovi, per i genitori, per i figli e per gli altri parenti? Non sarebbe molto più espressivo lasciare la durata del lutto affidata al sentimento di cadauno? Nei secoli di civiltà cristiana, il consenso generale lo valutò in un altro modo, ed a ragione. Vivendo in società, dobbiamo al prossimo una soddisfazione dei nostri atti. Di conseguenza, è giusto manifestare a tutti il dolore che legittimamente dobbiamo sentire per la morte dei nostri prossimi. Se non manifestassimo questo dispiacere, lasceremmo trasparire un'indifferenza che ridonderebbe a disonore nostro, o a quello del defunto. Dunque è buona cosa che, secondo un tacito e generale consenso, si fissi un periodo minimo per il lutto, che chiaramente ha sempre qualcosa di arbitrario, in modo che, raggiunta la sua scadenza, nessuno tema di sospenderlo ed essere in mancanza al decoro. È ovvio che i costumi imponevano un periodo minimo, e non censuravano chi volesse mantenerlo oltre a questa scadenza. Ad ogni modo, la compostezza che il cristiano deve conservare in tutto il suo procedimento veniva salvaguardata.

Secondo le nostre consuetudini tradizionali, i funerali non si rivestivano soltanto de segni di dolore, ma anche di pompa. Il più modesto funerale aveva sempre qualcosa di grandioso, persino nella sua semplicità. Nulla di più ragionevole. Un uomo vale molto, per modesto che sia nella scala sociale. Come creatura di Dio, e ancor più come figlio di Dio per il Battesimo, è stato creato per la gloria immortale. È giusto che questa fondamentale dignità di uomo, tante volte celata dalle vicissitudini della vita, sia risaltata nel momento della morte, cioè, nel momento in cui tutti, grandi e piccoli, perdono tutto ciò che possiedono e rimangono ridotti alla mera condizione essenziale ed inalienabile di uomini e di figli della Chiesa.

Inoltre, essendo la morte un castigo di Dio, partecipa in qualche modo alla maestà dello stesso Dio. Essa è posta sulle soglie dell'eternità. E queste soglie sono talmente immense, che alla loro vista si riduce a polvere tutto ciò che è la grandezza umana. Esiste, dunque, qualcosa di più maestoso della morte? E, quindi, qualcosa di più degno da essere risaltato con pompa?
Il secolo scorso [XIX], tutto impregnato di romanticismo, per così dire si compiaceva del dolore! E, perciò, senza grandi difficoltà, manteneva le usanze cristiane riguardo alla morte ed ai funerali. In molti sensi addirittura le esagerava. Infatti, nella letteratura, nella musica, nell'arte e nel modo di vivere del secolo XIX, il dolore si espresse sovente con una nota di tragedia lancinante, di disperazione, di rivolta che stona dall'insegnamento della Chiesa.

Un conto è una separazione temporanea, un conto è una separazione definitiva. La Chiesa ha sempre approvato che si piangesse la morte, tuttavia come una separazione temporanea che terminerebbe con un felice re-incontro nella beatitudine eterna. Era un dolore sentito, sì, ma pieno di speranza, di consolazione, di rassegnazione. Il secolo XIX fu un secolo senza Fede, che vedeva le ombre della morte, man non voleva vedere aldilà di queste ombre gli albori della risurrezione e del Cielo. Viene da qui la nota di tragedia e di disperazione tanto frequente di allora, in materia funeraria.

Nessuno può fissare a lungo lo sguardo sulla morte, quando non ha la Fede. Fu quel che succedette agli uomini: perduta la Fede nel secolo XIX, nel secolo XX  cominciarono a distogliere lo sguardo dalla morte.

Un tempo, i cadaveri restavano velati per ventiquattro ore. Oggi a volte non si arriva a dodici. Un tempo, si rivestiva di teli neri tutta la sala in cui il defunto rimaneva esposto. Oggi questa abitudine tende a sparire e molte famiglie persino preferiscono non fare a casa l'esposizione del corpo. Un tempo, il dolore aveva tutta la libertà di manifestarsi nella camera ardente, nei limiti della dignità e della compostezza. Oggi è considerato di buon gusto soffocare il più possibile i propri sentimenti in pubblico, appartando in una stanza coloro che desiderano piangere. Un tempo erano inviati dei fiori, e questa usanza era giunta a una certa esagerazione. Oggi si tende ad abolire questo modo di testimoniare la propria nostalgia. Un tempo, si andava al funerale in abito solenne e gli uomini in frac. Un tempo, i carri funebri erano tirati a cavallo, un'usanza che si conservò per molti anni dopo l'introduzione dell'automobile nella vita civile. Più tardi l'uso dell'automobile è divenuto esclusivo e la sua forma è evoluta sino ad acquisire tanto quanto possibile l'aspetto di un veicolo per la consegna della merce. Un tempo, il lutto era lungo e molto visibile. Oggi è svelto e ristretto.

Il punto estremo di questa trasformazione è stato raggiunto da una certa nazione in cui - per lo meno in alcune regioni - i defunti vengono truccati come se fossero vivi, sono adornati come per una festa e messi a sedere in una postura normale nel soggiorno di casa. Quindi, si riuniscono gli amici e qualcuno suona delle musiche leggere. Dopo, tutti si spostano verso un bel giardino che funge da cimitero. Il morto, avviluppato in un telo verde sgargiante, viene calato nella fossa, a meno che sia cremato. Ed è finito il funerale. Di lutto, neanche se ne parla!
Perché abbiamo fatto questa lunga digressione sulla morte? Perché in un certo senso, ciò che vi è di più importante nella vita è proprio la morte. Finché gli uomini non avranno un'attitudine retta, equilibrata e cristiana dinanzi alla morte, non saranno capaci di avere un attitudine retta, equilibrata e cristiana dinanzi alla vita.


Plinio Corrêa de Oliveira

Rivista "Catolicismo", Novembre 1951






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