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Novembre
Commemorazione dei fedeli defunti
«Ecco, io vi annuncio un mistero:
noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un
batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti
risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che
questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si
vesta d’immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito
d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola
della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria».
Con queste magnifiche parole, San
Paolo (1 Cor. 15, 51-54) annuncia ai pagani la buona novella della resurrezione
della carne.
La nostra foto rappresenta delle pie
donne che vegliano un defunto in un piccolo villaggio della Spagna. Sono
costernate dal dolore della separazione. Ma nella loro sofferenza non vi è
disperazione, né acredine, né rivolta. Domina l'ambiente un'atmosfera di serena
conformità, di soave rassegnazione, di raccolta preghiera. È perché si tratta
di un vero focolare cristiano, e, in qualsiasi contrada del mondo, ovunque ci
sia una famiglia cristiana, ricca o povera, colpita dalla morte, l'atmosfera
sarà sempre questa. I veri figli della Chiesa, infatti, credono nella
risurrezione della carne e sanno che mediante la Redenzione del genere umano
"la morte è stata inghiottita nella
vittoria".
Lo spirito del mondo non comprende
queste cose ed assume nei confronti della morte atteggiamenti completamente diversi
da quelli del cattolico genuino.Alla radice di tutto c'è il terrore,
un terrore con panico, che alla vista della sepoltura, sconvolge tutto
l'essere, perturba ogni lucidità, abbatte tutto il coraggio. Le miserie grandi
e piccole causate da questo terrore sono pressoché innumerevoli: il timore di
visitare il medico ed ascoltare una diagnosi minacciosa; la paura di fare
testamento; il raccapriccio di assistere all'agonia di qualcuno; il profondo
disagio di dover partecipare ai funerali, di mettersi in lutto, sono fenomeni
nervosi confessati o inconfessati, e talmente universali che sarebbe superfluo
insistere su di essi.
Un altro aspetto del terrore della
morte sta nell'esagerata cura della salute, nella paura di invecchiare, nella
tendenza di ognuno a dimenticare la propria età. E così ci si avvicina al
momento ineluttabile. Quando infine la mano della morte si posa su qualcuno,
conducendolo inequivocabilmente verso il grande ed ultimo viaggio, queste
miserie si accentuano ulteriormente. Quante volte l'infermo - contando sulla
complicità dei medici e degli amici - cerca di illudersi sino alla fine sulla
gravità del proprio stato. Quando ormai non c'è più rimedio se non il
riconoscere che sono giunti gli istanti supremi, il malato non ha coraggio di
guardare davanti a sé, verso il tramonto che lo sta avviluppando, l'oscurità
che si avvicina, e preferisce voltarsi verso il passato: ecco allora gli interminabili
commiati, le reminiscenze, gli ultimi doni, ecc. Finché sopraggiunge l'epilogo culminante,
trascinando tutto nella sua voragine. Il fatto è compiuto. La morte ha fatto
irruzione nel focolare.
Spetta ai vivi prendere un'attitudine
dinanzi ad essa. Coloro che avevano per il morto un affetto sincero restano
atterriti, si dimenano, si ribellano: sono i pianti tragici, le grida
lancinanti, gli abbattimenti profondi e delusi. Altri, invece, fuggono impauriti,
cercando di dimenticare il morto, per fuggire da quel che ricorda la morte.
Sono gli animi che si perdono intenzionalmente nei dettagli sociali dei
funerali e del lutto, che abbreviano al massimo la presenza del defunto in
casa, che «semplificano» in tutti i modi le onoranze funebri perché scorrano svelte
e senza lasciar traccia. Tra questi due atteggiamenti estremi, come è diversa
la posizione delle anime cattoliche!
La Chiesa ci insegna che la morte è
un castigo imposto da Dio agli uomini in conseguenza del peccato originale. Il
castigo consiste proprio nel procurare afflizione e dolore. E siccome Dio è
infinitamente sapiente e potente, e quindi compie con perfezione tutte le sue
opere, questo castigo stabilito da Lui dev'essere necessariamente capace di
produrre molta afflizione e molto dolore. Ne fu esempio supremo la morte
volontaria del nostro Salvatore, sommamente afflittiva, indicibilmente
dolorosa. E dato che gli istinti umani retrocedono dinanzi all'afflizione ed al
dolore, è naturale che si sentano terrorizzati di fronte alla morte.
È vero che molti santi sono morti
inondati da consolazioni soprannaturali, accettando la morte con più piacere di
coloro che accettano onori o ricchezze. Si tratta di veri miracoli della grazia,
nei quali l'unzione soprannaturale è tanto intensa da sospendere, per così
dire, gli affanni della natura. Ma gli uomini in generale non rientrano in
questo caso: muoiono con timore e dolore.
Se la morte fa soffrire, è legittimo
che partecipino di questo dolore coloro che amano il morto. La Chiesa ha
approvato, quindi, i costumi sociali tendenti a circondare la morte con le manifestazioni
esterne del dolore. E perciò la sua liturgia per i defunti assume tutti segni
della tristezza. Ella, che è la maestra e la fonte stessa dell'immortalità, non
disdegna di partecipare alle nostre lacrime, di rivestirsi del nostro lutto. I
paramenti del Sacerdote sono neri, come lo è pure il telo sul quale si
impartiscono le assoluzioni; e la musica liturgica per i defunti canta con
forte espressione tutto il dolore umano di fronte alla morte. Gli stessi testi
liturgici echeggiano all'unisono i nostri gemiti. Insomma, come Maestra, la
Chiesa giustifica il nostro dolore, come Madre vi si associa. Per questo incita
la carità dei fedeli a manifestarsi generosamente a proposito della morte. Vegliare
i defunti, partecipare ai funerali, visitare le famiglie in lutto, assistere alle
Messe in suffragio dei defunti, sono atti praticati oggi molto spesso con
spirito assolutamente mondano e naturalista. Questo spirito dev'essere abolito,
ma non lo devono essere questi atti, in sé stessi eccellenti e rigorosamente
coerenti con quel che la Chiesa insegna sulla morte.
Così si spiega come, nei secoli di
civiltà cristiana, i costumi sociali, lentamente costituiti sotto l'influsso
dello spirito cattolico, via via diedero forma ed espressione a tutte le idee. Da
qui proviene il lutto che i popoli occidentali portano con il colore nero,
ritenendo - non infondatamente - che questo colore serve per esprimere il
dolore.
Ma, si direbbe, sarà necessario come
che stabilire delle regole per il lutto, in modo che i costumi impongano un certo
periodo di tempo, e quindi una determinata forma di lutto, per i vedovi, per i
genitori, per i figli e per gli altri parenti? Non sarebbe molto più espressivo
lasciare la durata del lutto affidata al sentimento di cadauno? Nei secoli di
civiltà cristiana, il consenso generale lo valutò in un altro modo, ed a
ragione. Vivendo in società, dobbiamo al prossimo una soddisfazione dei nostri
atti. Di conseguenza, è giusto manifestare a tutti il dolore che legittimamente
dobbiamo sentire per la morte dei nostri prossimi. Se non manifestassimo questo
dispiacere, lasceremmo trasparire un'indifferenza che ridonderebbe a disonore
nostro, o a quello del defunto. Dunque è buona cosa che, secondo un tacito e
generale consenso, si fissi un periodo minimo per il lutto, che chiaramente ha
sempre qualcosa di arbitrario, in modo che, raggiunta la sua scadenza, nessuno tema
di sospenderlo ed essere in mancanza al decoro. È ovvio che i costumi
imponevano un periodo minimo, e non censuravano chi volesse mantenerlo oltre a
questa scadenza. Ad ogni modo, la compostezza che il cristiano deve conservare
in tutto il suo procedimento veniva salvaguardata.
Secondo le nostre consuetudini
tradizionali, i funerali non si rivestivano soltanto de segni di dolore, ma
anche di pompa. Il più modesto funerale aveva sempre qualcosa di grandioso,
persino nella sua semplicità. Nulla di più ragionevole. Un uomo vale molto, per
modesto che sia nella scala sociale. Come creatura di Dio, e ancor più come
figlio di Dio per il Battesimo, è stato creato per la gloria immortale. È
giusto che questa fondamentale dignità di uomo, tante volte celata dalle
vicissitudini della vita, sia risaltata nel momento della morte, cioè, nel
momento in cui tutti, grandi e piccoli, perdono tutto ciò che possiedono e
rimangono ridotti alla mera condizione essenziale ed inalienabile di uomini e
di figli della Chiesa.
Inoltre, essendo la morte un castigo
di Dio, partecipa in qualche modo alla maestà dello stesso Dio. Essa è posta
sulle soglie dell'eternità. E queste soglie sono talmente immense, che alla
loro vista si riduce a polvere tutto ciò che è la grandezza umana. Esiste,
dunque, qualcosa di più maestoso della morte? E, quindi, qualcosa di più degno
da essere risaltato con pompa?
Il secolo scorso [XIX], tutto
impregnato di romanticismo, per così dire si compiaceva del dolore! E, perciò,
senza grandi difficoltà, manteneva le usanze cristiane riguardo alla morte ed ai
funerali. In molti sensi addirittura le esagerava. Infatti, nella letteratura,
nella musica, nell'arte e nel modo di vivere del secolo XIX, il dolore si
espresse sovente con una nota di tragedia lancinante, di disperazione, di
rivolta che stona dall'insegnamento della Chiesa.
Un conto è una separazione
temporanea, un conto è una separazione definitiva. La Chiesa ha sempre
approvato che si piangesse la morte, tuttavia come una separazione temporanea
che terminerebbe con un felice re-incontro nella beatitudine eterna. Era un
dolore sentito, sì, ma pieno di speranza, di consolazione, di rassegnazione. Il
secolo XIX fu un secolo senza Fede, che vedeva le ombre della morte, man non
voleva vedere aldilà di queste ombre gli albori della risurrezione e del Cielo.
Viene da qui la nota di tragedia e di disperazione tanto frequente di allora,
in materia funeraria.
Nessuno può fissare a lungo lo
sguardo sulla morte, quando non ha la Fede. Fu quel che succedette agli uomini:
perduta la Fede nel secolo XIX, nel secolo XX
cominciarono a distogliere lo sguardo dalla morte.
Un tempo, i cadaveri restavano
velati per ventiquattro ore. Oggi a volte non si arriva a dodici. Un tempo, si
rivestiva di teli neri tutta la sala in cui il defunto rimaneva esposto. Oggi
questa abitudine tende a sparire e molte famiglie persino preferiscono non fare
a casa l'esposizione del corpo. Un tempo, il dolore aveva tutta la libertà di
manifestarsi nella camera ardente, nei limiti della dignità e della
compostezza. Oggi è considerato di buon gusto soffocare il più possibile i
propri sentimenti in pubblico, appartando in una stanza coloro che desiderano
piangere. Un tempo erano inviati dei fiori, e questa usanza era giunta a una
certa esagerazione. Oggi si tende ad abolire questo modo di testimoniare la propria
nostalgia. Un tempo, si andava al funerale in abito solenne e gli uomini in
frac. Un tempo, i carri funebri erano tirati a cavallo, un'usanza che si
conservò per molti anni dopo l'introduzione dell'automobile nella vita civile. Più
tardi l'uso dell'automobile è divenuto esclusivo e la sua forma è evoluta sino
ad acquisire tanto quanto possibile l'aspetto di un veicolo per la consegna
della merce. Un tempo, il lutto era lungo e molto visibile. Oggi è svelto e ristretto.
Il punto estremo di questa
trasformazione è stato raggiunto da una certa nazione in cui - per lo meno in
alcune regioni - i defunti vengono truccati come se fossero vivi, sono adornati
come per una festa e messi a sedere in una postura normale nel soggiorno di
casa. Quindi, si riuniscono gli amici e qualcuno suona delle musiche leggere.
Dopo, tutti si spostano verso un bel giardino che funge da cimitero. Il morto,
avviluppato in un telo verde sgargiante, viene calato nella fossa, a meno che sia
cremato. Ed è finito il funerale. Di lutto, neanche se ne parla!
Perché abbiamo fatto questa lunga
digressione sulla morte? Perché in un certo senso, ciò che vi è di più
importante nella vita è proprio la morte. Finché gli uomini non avranno un'attitudine
retta, equilibrata e cristiana dinanzi alla morte, non saranno capaci di avere
un attitudine retta, equilibrata e cristiana dinanzi alla vita.
Plinio
Corrêa de Oliveira
Rivista
"Catolicismo", Novembre
1951
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