Le luci di natale arrivano dai gulag cinesi
Lo chiamate albero di Natale, ma rischia di trasformarsi nell’albero della tortura e della schiavitù. A far la differenza bastano talvolta luci e addobbi. Soprattutto se sono «Made in China». Per capirlo basta visitare il museo del Laogai inaugurato a Washington da Harry Wu, il dissidente sopravvissuto a 17 anni di campi di lavoro e conosciuto come il Solgenitzin cinese. Nelle sale del museo dedicato ai gulag del comunismo di Pechino sono esposti bulbi fluorescenti, nastri argentati, lampadine colorate. Sono addobbi natalizi esattamente uguali a quelli accesi in questi giorni su migliaia di abeti. Arrivano dai campi di lavoro, da quei «laogai» dove dissidenti e prigionieri trasformati in schiavi di Stato garantiscono esportazioni a basso costo. «Gli italiani e gli europei non lo sanno, ma molti degli addobbi natalizi esportati da Pechino provengono dai campi di lavoro dove uomini e donne imprigionati soltanto per le loro idee o la loro religione vengono usati come schiavi di Stato - spiega Antonello Brandi direttore per l’Italia della Laogai Research Foundation, l’organizzazione fondata da Harry Wu che cataloga e denuncia i gulag cinesi. Secondo i dati dell’associazione raccolti in un documento intitolato «Manuale dei Laogai» operano in Cina 1.422 campi di lavoro. In quel manuale la connessione tra i simboli del Natale e la sofferenza acquista spietata concretezza. Uno dei centri più famosi per la produzione di luci e addobbi natalizi è la prigione di Fanjiatai nella città di Shayang, provincia di Hubei. Dentro quel gulag si producono i prodotti distribuiti sui mercati internazionali da alcune aziende situate nelle province di Zhejang, Jamgsu e Fujian. «Queste ultime forniscono solo il marchio - spiega Brandi - la mano d’opera a costo zero è tutta nel Laogai di Fanjiatai».
[…] «Lavoravamo sette giorni alla settimana, dalle cinque e mezzo di mattina fino alle due di pomeriggio, ma se c’era bisogno di aumentare la produzione venivamo costretti a turni che arrivavano anche 15 ore. Chi smetteva di lavorare o si rifiutava di ammettere le proprie colpe subiva la pena del bastone elettrico. Sono stata torturata fino a quando ho perso conoscenza e costretta a imporre quello stesso supplizio ai miei compagni di detenzione. Quello secondo i responsabili della prigione era l’unico modo di dimostrare la mia redenzione». La tragedia dei Laogai emerge anche dal rapporto del «Comitato dell’Onu contro la tortura» pubblicato qualche settimana fa. Il rapporto denuncia «l’alto numero di morti e d’abusi durante la detenzione di individui mai giudicati da un tribunale e a cui non è riconosciuta alcuna possibilità di protestare per la propria prigionia». Oggi alcune di questi inferni del lavoro forzato esportano i loro prodotti anche in Italia. «Secondo le indagini della nostra fondazione - spiega Brandi - il centro di detenzione di Zhongba nella città di Qingzhen comprende un campo con almeno duemila prigionieri costretti a lavorare fino 16 ore al giorno e un marchio per la produzione di gemme di cristallo, lampadine e lanterne distribuite in Italia, Belgio, Francia e Stati Uniti con il marchio Zhuhai Chili Electronic. Costano poco, ma dietro a quel marchio si nascondono esseri umani ridotti in schiavitù e, spesso, anche prodotti nocivi e pericolosi per chi li acquista».
(Gian Micalessin, Il Giornale – 14/12/2008)
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