Stralci di un post, oculato e vivace,
che illustra come una minoranza silenziosa (ma numerosa)
sa ormai identificare e sottrarsi a certe metamorfosi
in cui manovrano gli onnipresenti iniziatori di una "Chiesa-Nuova" (*)
Sto notando, tra i credenti, il diffondersi di un
fenomeno nuovo. O, meglio, di una nuova figura. Lo chiamerei il «cattolico errante».
Si tratta di un bravo cattolico, un
po’ di tutte le età e le condizioni sociali, che vaga di chiesa in chiesa, di
parrocchia in parrocchia. Perché lo fa? Perché, stanco di liturgie sciatte e di chiese brutte, di preti iperattivi
o apatici, di parrocchiani sovreccitati o depressi, cerca una chiesa che sia
semplicemente normale, con un prete che sia semplicemente prete, una liturgia
semplicemente dignitosa, un edificio semplicemente rispettoso del sacro, fedeli
semplicemente beneducati.
Il cattolico errante non ha molte
pretese. [...] Però è stanco, molto
stanco. Non gli va più di convivere
con ignoranza e superficialità. Non ne può più di musica per nulla sacra, cori
stonati, altoparlanti da discoteca, licenze assurde nella celebrazione. Non sopporta più fedeli chiassosi e
sbracati. Non ne può più di chiese orrende, preti che celebrano con le scarpe
da ginnastica, tazebao appesi tra una Madonna e un San Giuseppe. Non accetta
più di subire omelie irrimediabilmente scontate o troppo immaginifiche. Non gli
va più di fare i conti con parroci che sbrigano la messa come fosse una pratica
amministrativa o che la trasformano in spettacolo. Ed è anche stanco di essere
guardato come un provocatore ogni volta che osa dire come la pensa. Così, si
mette in viaggio e diventa un cattolico errante.
Il suo obiettivo è naturalmente
quello di tornare a essere un cattolico stanziale, e c’è da dire che spesso ci
riesce. Per quanto grami, infatti, questi nostri tempi non sono disperati. Ci
sono ancora tanti preti semplici e assennati, alla guida di parrocchie normali
nel senso migliore del termine. Ci sono ancora tanti bravi predicatori. C’è
ancora attenzione per la coerenza liturgica, per il bel canto, per la musica
davvero sacra. Però sono tesori che vanno cercati. E il metodo più utilizzato
dal cattolico errante è il passaparola. Come nel seguente esempio di dialogo tra un ex cattolico errante
tornato stanziale, che chiameremo Tizio, e
un cattolico stanziale che sta per diventare errante, e chiameremo Caio.
Tizio: Ciao Caio!
Caio: Ciao Tizio!
Tizio: Lo sai che ho trovato una
bella parrocchia? La Chiesa non è né troppo piccola né troppo grande e
l’acustica è perfetta, tanto che non c’è bisogno di altoparlanti. I canti sono
stupendi, qualcuno perfino in latino. Niente chitarre, niente tamburi. Pensa
che i fedeli, quando entrano ed escono, si inginocchiano! E nessuno si mette a
chiacchierare come se si trovasse nella piazza del mercato.
Caio: Ma no? Non ci posso credere!
Tizio: Te l’assicuro, è tutto vero!
E il parroco non è un attivista. Niente lotterie, niente viaggi, niente
iniziative strane. Non è neanche logorroico. Solo preghiera, adorazione
eucaristica e catechismo. E tanta cura per la liturgia. E tante ore trascorse
nel confessionale.
Caio: Ma guarda! Sembra impossibile!
Tizio: Anche a me sembrava
impossibile. Poi ho trovato questa parrocchia e mi è tornata la voglia di
andare in chiesa. E ancora non ti ho detto delle prediche: bellissime! Il
parroco non è malato di protagonismo, né monomaniacale. Si limita a commentare il
Vangelo del giorno e ogni volta lo fa con semplicità, ma senza diventare
banale. E sa farsi ascoltare da tutti, bambini e vecchi, colti e meno colti!
Caio: Dimmi subito dove si trova
questa parrocchia!
Ecco, le cose più o meno vanno così.
Certo, il traffico un po’ ne risente, perché tutti questi cattolici erranti
sono costretti a spostarsi percorrendo molti chilometri. Ma ne vale la pena.
Anche se il cattolico errante spesso non lo sa
(perché è una persona semplice, mossa solo dalla sua fede e dal desiderio del
bello e del sacro), il «Codice di diritto canonico» sta dalla sua parte. Il
Codice infatti riconosce non solo il diritto di ricevere dai pastori l’aiuto
derivante dai beni spirituali della Chiesa, specie attraverso la Parola di Dio
e i sacramenti, ma anche «il diritto di rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito approvato
dai legittimi pastori della Chiesa e di
seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla
dottrina della Chiesa». Quindi c’è un diritto a evitare le storture, le
stranezze e le ambiguità, per non parlare delle vere e proprie profanazioni.
In realtà il Codice dice che le
aberrazioni liturgiche vanno anche segnalate e denunciate, e che anzi, per il
cattolico, questo è un preciso dovere. Ma il cattolico errante, mosso da pietà,
spesso preferisce stendere un velo pietoso e, anziché scrivere al vescovo ed
esporre le sue lagnanze, si mette in viaggio.
Il cattolico errante, insomma, non
fa che cercare ciò che gli spetta. Lo spiega molto bene anche il liturgista don
Nicola Bux in quel prezioso libro che è «Come
andare a messa e non perdere la fede», dove ricorda che in tutti i casi in
cui la comunità, anziché lodare Dio, celebra sé stessa (per dirla con Joseph
Ratzinger), trasforma la liturgia in «una danza vuota intorno al vitello d’oro che
siamo noi stessi», occorre reagire.
[...] Vorrei solo sottolineare la
verbosità che ha fatto irruzione nella celebrazione della messa. Verbosità vuol
dire che si chiacchiera troppo, si prega poco e si adora ancor meno. Don Bux
scrive che la messa «non è una conferenza dove devi capire tutto», quindi è
inutile che il celebrante si affanni a spiegare ogni cosa, in modo didascalico,
quasi desacralizzando la liturgia. «Il
linguaggio liturgico non può essere quello quotidiano» e «comprendere la realtà della liturgia è
diverso dal comprendere le parole». Occorre lasciare spazio al mistero e
lasciarsi prendere dal mistero.
Un’annotazione va fatta sul ruolo
della comunità, del popolo di Dio che partecipa alla messa, ma, attenzione, non
è il soggetto della messa. Tanto è vero che il celebrante può benissimo essere da solo e la messa è pienamente
valida. Quindi, se va evitato il protagonismo del celebrante, va evitato
anche quello dell’assemblea, altrimenti c’è davvero il rischio che l’azione
liturgica diventi spettacolo rispetto al quale tutti sono desiderosi di dare un
contributo. Partecipare non vuol dire gareggiare nel protagonismo, ma stare al proprio posto, con
discrezione. Un malinteso senso della partecipazione porta a coinvolgere il
popolo in modo improprio. «Partecipare
attivamente significa cooperare intimamente con la grazia di Dio; non è
attività esteriore».
Bellissime poi le pagine nelle quali
don Bux spiega la necessità e il significato dell’inginocchiarsi. Vangelo e
Atti degli apostoli ci dicono che Gesù, Pietro, Paolo e Stefano hanno pregato
in ginocchio. «Tutta la creazione piega
le ginocchia nel nome di Gesù (cfr Filippesi 2,10), segno della signoria di Dio sul mondo. In tale gesto di verità si
inserisce la Chiesa nel glorificare Gesù Cristo» (cfr. Filippesi 2,10). L’inginocchiarsi, il genuflettersi e
l’inchinarsi sono atti di culto esterno, certamente, ma anche di fede. Ci
aiutano nella preghiera e nell’adorazione.
[...] Come il silenzio, il «sacro silenzio», che è esso stesso preghiera e manifestazione di
fede e adorazione. Quel silenzio che oggi è così negletto nelle celebrazioni
piene di clamore, nelle quali si arriva perfino all’applauso. Come se l’azione
liturgica, al pari di uno spettacolo, dovesse procurare emozioni e non aiutarci
a entrare nel mistero permanente di Cristo sulla croce.
Insomma, il cattolico errante ha
tutto il diritto di mettersi alla ricerca di liturgie pulite, sobrie, essenziali,
belle, efficaci. Ed è comprensibile che, una volta trovato un tesoro così
grande, lo voglia condividere.
Aldo Maria Valli
(Blog di Aldo Maria Valli - Luglio 2017 - titolo
originale "Il
cattolico errante e la ricerca della liturgia perduta")
(I grassetti
sono nostri)
(*) Vedi pure:
Comunismo e progressismo verso una Chiesa-Nuova
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