lunedì 22 febbraio 2010

Socialismo e indigenismo

America Latina: stop “dimenticatoio”.

[…] Così il crollo delle tradizioni dell’Occidente nel campo dell’abbigliamento, corrose sempre più dal nudismo, tende ovviamente alla comparsa o al consolidamento d’abitudini nelle quali si tollererà, a esagerare, la cintura di penne d’uccello di certe tribù, alternata, dove il freddo lo richieda, a coperte più o meno simili a quelle usate dai lapponi. La rapida scomparsa delle forme di cortesia può aver come punto finale soltanto la “naturalezza” assoluta (per usare solo questo aggettivo) del tratto tribale. La crescente avversione per tutto quanto è ragionato, strutturato e metodico può condurre soltanto, nei suoi ultimi parossismi, al perpetuo e fantasioso vagabondaggio della vita nelle selve, alternata, anch’essa, al disimpegno istintivo e quasi meccanico di alcune attività assolutamente indispensabili alla vita. L’avversione allo sforzo intellettuale, all’astrazione, alla teorizzazione, alla dottrina, può portare soltanto, in ultima analisi, a un’ipertrofia dei sensi e dell’immaginazione, a quella “civiltà dell’immagine” sulla quale Paolo VI ha ritenuto di dover attirare l’attenzione dell’umanità.  (Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Parte III, Cp. III, 2 B)


America Latina: stop “dimenticatoio”.

Socialismo e indigenismo

Nel suo recente viaggio in Bolivia, Fausto Bertinotti è rimasto folgorato dal Presidente Evo Morales e dalla sua rivoluzione indigenista. Rientrando in patria, ha voluto trarne qualche lezione per la sinistra italiana.

Secondo il leader di Rifondazione Comunista, il nostro sistema politico è “bloccato”, cioè privo di grandi prospettive riformiste. Stiamo anni ed anni a discutere sterilmente su tecnicismi, come la riforma della legge elettorale, mentre l’America Latina “è in pieno rinascimento politico”.
Questo rinascimento è spinto dal processo rivoluzionario attualmente in corso nella regione. Erede delle rivoluzioni socialiste e comuniste degli anni ‘60-‘70, questo processo ha tuttavia un orizzonte nuovo che potrebbe servire per rilanciare la sinistra in Italia: l’ “indigenismo”.

Non si tratta, però, di venire incontro ai legittimi bisogni delle classi popolari, in buona parte composte in America Latina da indios e meticci. Questo sarebbe un ideale perfettamente condivisibile e perfino simpatico. Si tratta di proclamare una nuova Rivoluzione che, ispirandosi ai tipi di organizzazione tribale, miri a superare un socialismo ormai in crisi.

Una tappa del processo rivoluzionario

Qualcuno ha voluto vedere in questo “excursus” terzomondista del presidente della Camera appena un’ennesima eccentricità. Invece no. La prospettiva indigenista è parte essenziale della visione storica marxista, appunto come superamento dell’attuale fase del processo rivoluzionario. In “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” (1884), dopo aver descritto come auspicabile l’estinzione dello Stato, Engels parla in forma idilliaca delle società tribali, vedendovi una «riscoperta della concezione materialistica della storia». Il compagno di Marx propone quindi un ritorno ad alcune di queste forme per superare sia la proprietà privata che lo Stato, ossia per arrivare alla meta ultima del comunismo.
Nella visione marxista, il processo storico è spinto dall’ansia di libertà totale nonché di uguaglianza perfetta. A partire dalla fine del Medioevo, queste sono state conquistate da diversi “soggetti storici” attraverso successive rivoluzioni. Dalla sinistra della Rivoluzione Francese già nascono fazioni che, volendo superarla, propugnano una “rivoluzione nella rivoluzione”, approdando a posizioni apertamente socialistiche. È il caso di François “Gracco” Babeuf.

 Da queste fazioni scaturisce il socialismo cosiddetto “utopico”, del quale il marxismo vorrà  essere la versione “scientifica”. Abolite le disuguaglianze religiose col protestantesimo e quelle politico-sociali col giacobinismo, si tratta adesso di cancellare quelle economiche.

A questo scopo serve – e qui inizia il contributo di Lenin – un periodo transitorio chiamato “dittatura del proletariato”, nel quale il Partito comunista si impadronisce dello Stato e strumentalizza le sue risorse per distruggere manu militari le strutture che possano produrre disuguaglianza, in primis la proprietà privata e la famiglia. È la rivoluzione proletaria.
Però, né Marx né nessun teorico o leader comunista, tanto “ortodossi” quanto “eterodossi”, avevano visto nella dittatura nel proletariato la fase finale del processo rivoluzionario. Nella loro mitologia evoluzionistica, così come l’evoluzione si svolgerà all’infinito con il passare dei secoli, così anche la Rivoluzione non avrà termine. È impossibile prevedere, nella prospettiva marxista, come sarà il processo rivoluzionario tra, diciamo, mille ani. Però non è impossibile prevederne il prossimo passo. Questa previsione l’hanno già fatta gli stessi marxisti. Essa dovrà essere il crollo della dittatura del proletariato in conseguenza d’una nuova crisi, per cui lo Stato ipertrofizzato sarà vittima della sua stessa ipertrofia e scomparirà, dando origine ad uno stato di cose cooperativista chiamato “socialismo autogestionario”.
Lo stesso Preambolo della Costituzione dell’Unione Sovietica stabiliva che «l’obiettivo supremo dello Stato sovietico è costruire la società comunista senza classi, nella quale si sviluppi l’autogestione comunista». Spiegando questo particolare, un documento dell’Accademia delle Scienze dell’URSS afferma: «Il problema è quello dell’estinzione dialettica dello Stato socialista e della sua trasformazione in autogestione comunista della società».

L’abolizione dell’ “io” e del “mio”

E poi? Ecco che, ormai da qualche anno, si accenna all’orizzonte indigenista. Già nel 1976 il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) aveva descritto questo orizzonte. Indagando su quale potrebbe essere lo sviluppo del processo rivoluzionario oltre l’autogestione rispondeva: «È impossibile non chiedersi se la società tribale sognata dalle attuali correnti strutturaliste non dia una risposta a questa domanda. Lo strutturalismo vede nella vita tribale una sintesi illusoria tra l’apice della libertà individuale e del collettivismo accettato, in cui quest’ultimo finisce per divorare la libertà.
In tale collettivismo, i diversi “io” o le persone singole, con il loro pensiero, la loro volontà e i loro modi di essere, caratteristici e contrastanti, si fondono e si dissolvono – secondo loro – nella personalità collettiva della tribù che genera un modo di pensare, un modo di volere e un modo di essere massivamente comuni.

Ben inteso, la strada verso questo stato di cose deve passare attraverso la estinzione dei vecchi modelli di riflessione, volizione e sensibilità individuali, gradatamente sostituiti da forme di sensibilità, di pensiero e di deliberazione sempre più collettivi».

Dissolto l’“io” verrebbe automaticamente annullato il “mio”, vale a dire la nozione stessa di proprietà privata, sorgente di ogni disuguaglianza e di ogni male.

In “Tribalismo indigeno, ideale comuno-missionario per il Brasile del secolo XXI” (1977), Corrêa de Oliveira torna a trattare dettagliatamente l’argomento, prevedendo con trent’anni di anticipo il processo attualmente in corso in America Latina. Sembra che Bertinotti sia arrivato un pò tardi all’appuntamento con la storia.
 
(Julio Loredo, Radici Cristiane - Febbraio/Marzo 2008)

Finiremo così?...


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